Probabilmente no: l'importanza attribuita a vista, udito, tatto, gusto e olfatto non dipende da fattori biologici ma varia in base a cultura di appartenenza e linguaggio. Come spesso accade, abbiamo ragionato finora su parametri quasi esclusivamente occidentali.
Il modo in cui parliamo dei sensi varia in base alla cultura di provenienza (ma gli odori sono difficili da descrivere per tutti).
Siamo soliti pensare che esista una sorta di "ordine di preferenza universale" per i sensi umani. Ancora prima di leggere direste infatti che il quello di cui parliamo più facilmente è la vista e che seguono udito, tatto, gusto e olfatto (sempre che ne esistano cinque soltanto). Probabilmente ci sbagliavamo: in base a uno studio pubblicato su PNAS, questa regola non vale ovunque nel mondo. Ad influenzare la gerarchia della percezione non sono tanto fattori biologici tipici dei sapiens, quanto elementi culturali, dunque variabili.
Ciò si riflette nella facilità con cui descriviamo i vari ambiti sensoriali. Chi per esempio appartiene a una cultura che dà grande importanza alla musica sarà più abile a parlare dei suoni uditi, anche se non è un musicista; chi proviene da un Paese con una forte tradizione nelle sculture di terracotta, sarà più capace di altri di descrivere la forma di un oggetto al tatto.
Gli Himba, pastori nomadi della Namibia, notano i dettagli in una scena in un modo che sfugge agli occidentali. Tra le ragioni, la conta del bestiame. | CORBIS
UN ERRORE CHE SI RIPETE.Se finora non ce ne eravamo accorti, era a causa della tendenza nota, negli studi scientifici, a studiare soggetti bianchi, occidentali, colti, ricchi (spesso gli stessi studenti universitari facilmente arruolabili dai laboratori), poco rappresentativi della straordinaria complessità umana.
Asifa Majid, psicolinguista dell'Università di York, è partita dal fatto che gli inglesi sono capaci di descrivere in modo efficace input visivi come forme e colori, ma non sono bravi ad attribuire le giuste qualità agli odori percepiti. Come funziona, si è chiesta, nelle altre culture?
RACCONTA CIÒ CHE SENTI. Per provare a rispondere ha arruolato volontari parlanti 20 diversi linguaggi (inclusi tre tipi di linguaggi dei segni) e provenienti da diverse parti del mondo (dalle società di cacciatori-raccoglitori a quelle industrializzate). A queste persone è stato chiesto di descrivere a parole una serie di stimoli di varia natura sensoriale. Se la gerarchia fosse stata realmente universale, tutti gli intervistati avrebbero dovuto descrivere più facilmente gli stimoli visivi, seguiti da quelli auditivi e così via.
DIFFERENZE GEOGRAFICHE. Se per i volontari di lingua inglese è andato come previsto (hanno descritto bene input visivi e sonori) per gli altri sono emerse alcune differenze. Gli inglesi hanno faticato a descrivere gli stimoli gustativi, ma i volontari di lingua Farsi e Lao (le lingue di Iran e Laos, rispettivamente) sono stati abilissimi in questo compito: ciò riflette, probabilmente, l'importanza che in queste culture si dà alla cucina.
QUALCOSA IN COMUNE. Per tutti l'olfatto è il senso più difficile da descrivere a parole - la prova del fatto che si tratta per lo più di un senso "muto" - ma un gruppo di cacciatori-raccoglitori australiani di lingua Umpila si è al contrario mostrato, rispetto agli altri 19 gruppi linguistici, molto abile nel descrivere gli stimoli odorosi. «Lo studio dimostra che non possiamo sempre presumere che capire certe funzioni umane all'interno del contesto del linguaggio inglese ci dia una prospettiva universalmente valida della questione» dice Majid. «Nel moderno mondo digitale, che tipicamente coinvolge vista e udito, potrebbe essere utile imparare, per esempio, come altre culture comunicano gusto e odorato».
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