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Uno studio sul rapporto tra demenze e cellule senescenti

Le cellule senescenti contribuiscono in un modo inaspettato ai processi neurodegenerativi: eliminarle dal cervello dei topi evita l'accumulo di una proteina tossica, caratteristica dell'Alzheimer, e protegge dai danni cognitivi della malattia.

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Malattia di Alzheimer: dietro all'assottigliamento dei tessuti cerebrali sembra esserci l'azione di cellule senescenti.

Ripulire il cervello dei topi da un particolare tipo di cellule, che si trovano in una condizione di perenne "letargo", previene la diffusione dei sintomi caratteristici dell'Alzheimer e di altre forme di demenza. Lo sostiene uno studio pubblicato su Nature che apre prospettive importanti nel trattamento delle malattie neurodegenerative, perché offre un diverso bersaglio terapeutico: le cellule senescentiavrebbero un ruolo molto più rilevante del previsto nella genesi del declino cognitivo.

MEGLIO SENZA. Durante l'invecchiamento le cellule accumulano mutazioni che potrebbero risultare in una crescita incontrollata e nello sviluppo di tumori. Un meccanismo di autodifesa fa sì che si trasformino in cellule senescenti: entrano cioè in uno stato di animazione sospesa, per cui non muoiono, ma cessano di crescere e dividersi.

A lungo queste cellule zombie sono state ritenute inerti, inutili ma innocue. Negli ultimi anni, tuttavia, alcune ricerche hanno dimostrato che sbarazzarsi di esse ha - nei topi - effetti molto positivi: i roditori "ripuliti" vivono più a lungo. In più, se sottoposti a chemioterapia ne sopportano meglio gli effetti collaterali.

Nella malattia di Alzheimer, la proteina tau avanza sfruttando il nostro "punto di forza": la connettività cerebrale. Vedi anche: servono nuovi criteri per diagnosticare l'Alzheimer? | SHUTTERSTOCK
INTERVENIRE ALL'ORIGINE.Darren Baker e Jan van Deursen, della Mayo Clinic di Rochester (Usa), hanno indagato il ruolo delle cellule senescenti nelle malattie neurodegerative. Rimuovendole dal cervello di alcuni topi ingegnerizzati per mostrare i sintomi precoci dell'Alzheimer, hanno prevenuto uno dei tratti più caratteristici della malattia: l'accumulo di proteina tau, che forma grovigli tossici all'interno dei neuroni. I topi liberati da questi ammassi non hanno perso neuroni come sembravano destinati a fare, e non hanno mostrato segni di perdita di memoria.

Il team ha lavorato con roditori geneticamente predisposti a sviluppare grovigli di proteina tau nei neuroni nei primi sei mesi di vita. All'ottavo mese, le aggregazioni di tau hanno iniziato a provocare la morte dei neuroni in regioni cruciali per l'apprendimento e la memoria, come l'ippocampo.

Ma i ricercatori hanno scoperto che tutti questi danni erano preceduti dalla comparsa di cellule senescenti, e che eliminandole - sia attraverso l'ingegneria genetica sia farmacologicamente - si potevano prevenire i grovigli di tau, insieme alle loro nefaste conseguenze. I topi sgravati da queste cellule non hanno mostrato segni di infiammazione cerebrale né di assottigliamento dei tessuti, e hanno mantenuto le abilità di apprendimento e memoria. Gli scienziati hanno inoltre dimostrato che a diventare senescenti non sono i neuroni, ma due altri tipi di cellule cerebrali, che hanno un ruolo immunitario e di protezione: gli astrociti e le cellule della microglia.

ASPETTATIVE E REALISMO. Per i ricercatori è troppo presto per stabilire in che modo le cellule senescenti causino danno alle altre e che cosa avvenga quando vengono eliminate - se, cioè, siano rimpiazzate da nuove cellule o se semplicemente il contenuto di cellule del cervello si riduca. Non si può neanche dire se lo stesso risultato si possa ottenere su modelli animali che includano altri sintomi dell'Alzheimer, né a maggior ragione sull'uomo: gli ultimi 15 anni di ricerca su questa malattia sono costellati di studi promettenti sui roditori, sfociati in delusione al momento di tradursi in trial farmacologici.

Lo studio è però importante perché, finora, la ricerca sull'Alzheimer si è concentrata soprattutto sull'accumulo di un'altra proteina, la beta-amiloide, senza dare i frutti sperati. Cambiare target terapeutico potrebbe aprire nuove strade da esplorare, anche perché esistono già farmaci approvati per eliminare le cellule senescenti: sono utilizzati, per esempio, in ambito oncologico.

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