Che cosa succederebbe se, per combattere la malaria, si eliminassero dalla faccia della Terra tutte le zanzare?
Estinzione genetica e parassiti: un tema che attira anche l'interesse (e i finanziamenti) della DARPA.
Quello di un mondo senza zanzare vettori di serie parassitosi potrebbe sembrare uno scenario ideale. Ma se per l'uomo sono soprattutto una seccatura, nel loro ecosistema questi insetti sono prede, avversari, impollinatori. Che cosa accadrebbe se li eliminassimo del tutto?
Alla domanda, al centro di un articolo pubblicato su Atlantic, nessuno sa o vuole rispondere con certezza. Ora però un gruppo di scienziati delle Università del Ghana e di Oxford si prepara a uno studio quadriennale sui rapporti che una delle principali specie di zanzare della malaria, l'Anopheles gambiae, intrattiene con altre creature del suo stesso ecosistema. Il team fa parte di Target Malaria, un consorzio di ricerca no-profit, finanziato dalla fondazione di Bill Gates, che sta studiando tecniche di ingegneria genetica per sopprimere le popolazioni di insetti serbatoi dei parassiti.
Lo studio si svolgerà in Ghana e cercherà di chiarire se e come pesci, pipistrelli, fiori o altri insetti siano interessati dagli effetti della scomparsa delle zanzare di questa specie. I ricercatori seguiranno l'intero sviluppo vitale dell'Anopheles gambiae, a partire dallo stadio larvale in piscine all'aperto appositamente allestite. Se questo vettore del plasmodio sparisse, altri insetti prenderebbero il suo posto nella sgradita missione?
COMPETITORI. Sulla Terra esistono circa 3.000 specie di zanzare, 70 delle quali capaci di trasmettere la malaria. Se anche eliminassimo definitivamente da un ecosistema tutti gli esemplari di A. gambiae (un complesso di 8 specie strettamente affini, nonché il vettore dominante dell'infezione), ma altre specie ne prendessero il posto, non avremmo compiuto uno sforzo molto utile. D'altro canto, questa zanzara sembra essersi evoluta "a braccetto" con l'uomo: ne condivide l'habitat e sembra prediligere il suo sangue più di ogni altra cosa. Da questo punto di vista è difficile immaginare che un'altra specie possa prenderne facilmente il posto.
PREDATORI. Lo studio sfrutterà una tecnica di analisi molecolare chiamata DNA barcoding per capire quali animali si nutrano di queste zanzare, e a quanta parte della loro dieta dovrebbero eventualmente rinunciare. Di fatto, gli scienziati studieranno le corte e frammentate sequenze di materiale genetico rintracciate nelle feci dei predatori noti delle zanzare, come i pipistrelli.
PIANTE. La stessa tecnica sarà sfruttata per quantificare l'attività delle Anopheles gambiae come insetti impollinatori. Il team raccoglierà granuli di polline dalle zanzare, e analizzandone il DNA risalirà alla specie di pianta da cui proviene.
INTANTO, IN LABORATORIO... La questione dell'eliminazione mirata di questa specie è attuale e pertinente: diversi gruppi di ricerca stanno infatti testando tecniche di ingegneria genetica per far estinguere selettivamente intere popolazioni di questo insetto vettore, o per renderlo incapace di trasmettere il plasmodio della malaria (senza, per esempio, dover esporre interi ecosistemi a potenti insetticidi, come il DDT).
Proprio in questi giorni un articolo su Nature Biotechnology descrive una tecnica di gene drive - che induce cioè il declino di una specie dannosa agendo sui suoi geni - usata con successo per bloccare, nelle zanzare femmine, la riproduzione e la capacità di pungere e succhiare il sangue. Il gruppo dell'Imperial College di Londra diretto dall'italiano Andrea Crisanti, e sostenuto della Fondazione Bill e Melinda Gates, ha sfruttato la tecnica Crispr per modificare parte di un gene chiamato doublesex - una sorta di sabotaggio genetico che induce infertilità e perdita di pungiglione nelle zanzare femmine. La diffusione di copie difettose del gene nella prole ha portato, nell'arco di 7-11 generazioni, alla scomparsa totale delle uova.
Non è la prima volta che si lavora a questa tecnica, ma in passato gli insetti avevano sviluppato resistenza alle mutazioni indotte. Questa volta ha funzionato, anche se prima che si possa testare qualcosa di analogo in natura trascorreranno almeno 5 o 10 anni. Meglio allora portarsi avanti e studiare, per quanto possibile e in sicurezza, i possibili effetti di tecniche così "drastiche" sugli ecosistemi.
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