Chiarita l'origine dell'evento naturale che 252 milioni di anni fa uccise il 90% delle specie terrestri e la quasi totalità di quelle marine: oceani troppo caldi e poco ossigenati non lasciarono scampo a piante e animali, uno scenario che - per cause diverse - potrebbe ripetersi.
La lava di un vulcano finisce nell'oceano: i gas serra prodotti da una serie di eruzioni vulcaniche innalzarono la temperatura oceanica nel tardo Permiano, impoverendo l'acqua dall'ossigeno.
Molto prima dei dinosauri, la Terra era popolata di piante e animali che furono quasi completamente spazzati via dalla più radicale estinzione di massa nella storia del Pianeta: quella che all'incirca 252 milioni di anni fa segnò la fine del periodo Permiano. I fossili che emergono dal pavimento oceanico testimoniano dapprima un ecosistema fiorente, poi la sparizione, in meno di 30 mila anni, del 96% delle specie marine, quindi diversi milioni di anni per recuperare.
Ma se la causa ultima dell'evento sembra essere legata a una serie di eruzioni vulcaniche in Siberia, sui fattori che resero gli oceani inabitabili ci si interroga da tempo: furono le acque troppo acide o le alte concentrazioni di metallo e composti di zolfo? La mancanza di ossigeno o semplicemente un innalzamento delle temperature oceaniche?
Secondo un nuovo studio pubblicato su Science, il global warming innescato dai gas serra liberati dalle eruzioni lasciò gli oceani a tal punto poveri di ossigeno da portare i loro abitanti alla morte per soffocamento. Le acque più calde, anche di 10 °C, da una parte accelerarono il metabolismo delle creature marine, dall'altra non riuscirono a garantire per esse ossigeno a sufficienza da respirare.
NON SI RESPIRA! Prima delle eruzioni incriminate, le temperature e i livelli di ossigeno negli oceani della Terra di fine Permiano, organizzata nel supercontinente Pangea, erano simili a quelli odierni. I ricercatori delle università di Washington e di Stanford hanno utilizzato un modello climatico del nostro pianeta in quel periodo in cui hanno inserito livelli di gas serra tali da determinare un aumento delle temperature oceaniche ai tropici pari a 10 gradi, come di fatto avvenne. In base al modello, in queste condizioni, gli oceani persero l'80% dell'ossigeno disciolto, e la metà dei fondali ne furono privati del tutto.
NESSUNA VIA DI FUGA. Il team ha quindi valutato la resistenza alle variazioni di ossigeno e di temperatura di 61 specie marine moderne, per trarre informazioni sulla "geografia" dell'estinzione. Il modello ha mostrato che gli organismi più colpiti furono quelli con un più alto bisogno di ossigeno che abitavano lontano dalle acque tropicali. Le evidenze fossili hanno confermato quanto ipotizzato dalla simulazione: le specie lontane dall'equatore sono state quelle maggiormente colpite.
«Poiché il metabolismo degli organismi tropicali era già adattato ad acque calde e più povere di ossigeno, queste creature poterono spostarsi dai tropici e trovare le stesse condizioni altrove», spiega Curtis Deutsch, oceanografo tra gli autori dello studio. «Ma per organismi già adattati ad ambienti freddi e ricchi di ossigeno, queste condizioni cessarono di esistere, in acque basse.»
LA PROSSIMA VOLTA... A risentirne maggiormente furono, dunque, le specie più vicine ai poli: lo studio, il primo a combinare modelli climatici con informazioni sulle esigenze metaboliche delle specie marine, suona come un monito sinistro, in un pianeta che vede accumularsi grandi concentrazioni di gas serra, mentre i suoi oceani si riscaldano. «In base a scenari di emissioni che non prevedono cambiamenti, entro il 2100 il riscaldamento della parte superiore degli oceani avrà raggiunto il 20% di quello del tardo Permiano, ed entro il 2300 arriverà al 35-50%», afferma Justin Penn, dello stesso team: «lo studio sottolinea la possibilità che un'estinzione di massa nasca per un meccanismo simile, ma sotto una spinta antropogenica, anziché geologica.»
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