Per i francesi era (ed è) un eroe nazionale, per i romani il nemico pubblico numero uno: la storia del capo carismatico che riuscì a unire le bellicose tribù galliche contro le legioni di Cesare.
Per conquistare la Spagna, Roma impiegò secoli. Per la Giudea quasi 200 anni. La Germania non l’ha mai conquistata, la Dacia (nei Balcani) la perse in poco tempo. La Gallia, invece, cadde in soli otto anni, quelli del proconsolato di Giulio Cesare, a metà del I secolo a.C. Eppure, quegli otto anni furono lunghissimi per gli abitanti di quei territori, determinati a rifiutare il dominio romano.
LA RESISTENZA. A guidare la resistenza fu Vercingetorige. Prima di lui la Gallia non era mai stata unita. Le singole tribù erano perennemente in contrasto tra loro. Vercingetorige fu il primo a dare unità ai galli (poi si dovranno aspettare i franchi di Clodoveo - cinque secoli dopo - e la dinastia merovingia per vedere la futura Francia unita sotto un’unica corona).
Vercingetorige aveva militato nell’esercito romano come ausiliario. Un cronista di molto posteriore, Cassio Dione (III secolo d.C.), si spinse a dire che fosse amico personale di Cesare. A partire da questa indiscrezione c’è chi ha supposto che il capo gallico fosse addirittura un agente di Cesare, che lo avrebbe incaricato di scatenare la rivolta per permettergli di consolidare il proprio potere.
LA RIVOLTA! Quel che è certo è che cominciò tutto a Cenabum, dove in pieno inverno i carnuti (popolo celtico stanziato tra la Senna e la Loira) compirono un massacro di funzionari e commercianti romani. L’azione riaccese ovunque il nazionalismo gallico e ci furono sollevazioni in serie, alle quali mancava solo una guida comune per sfociare in rivolta generale.
L’uomo che i galli aspettavano si trovava tra gli arverni, uno dei popoli più potenti della Gallia, stanziato nella regione dell’Auvergne (Francia centrale): era Vercingetorige, spirito incendiario e animo fiero.
Per prima cosa arruolò nelle campagne i poveri e i disperati. Messo insieme questo nucleo, convinse chiunque incontrava a passare dalla sua parte, a prendere le armi per la libertà comune. In breve tempo legò a sé i senoni, i parisi, i pittoni, i cadurci, i turoni, gli aulerci, i lemovici, gli andi e altre tribù che abitano lungo la costa dell’oceano. A uno zelo grandissimo accompagnava una grandissima severità nell’esercizio del potere: bruciava vivo chi cospirava contro di lui e tagliava orecchie e cavava occhi agli insubordinati.
L'ULTIMA BATTAGLIA. La resa dei conti fra l’armata gallica (che arrivò a quasi 100mila uomini) e i romani ebbe luogo ad Alesia, oggi in Borgogna. Quando la città fu alla fame e l’esercito di soccorso sconfitto, il giovane capo arverno rassegnò il proprio mandato davanti all’assemblea dei capi e si consegnò al proconsole.
La scena della sua resa, raccontata dallo stesso Cesare nel suo autocelebrativo De bello Gallico, è certamente una delle più famose della Storia. Il proconsole racconta che il capo gallo si presentò al suo cospetto in equipaggiamento completo, su un cavallo bardato di tutto punto, con il quale compì al galoppo un giro intorno alla postazione del vincitore in attesa su una sella curule (sella pieghevole riservata alle personalità più importanti di Roma), prima di smontare, gettare armi e corazza ai suoi piedi e sedere accanto a lui senza dire una sola parola.
EROE NAZIONALE. Il Grande Re degli Eroi, Vercingetorige, non avrebbe più dato noie al futuro dittatore. Fu giustiziato sei anni dopo, strangolato a Roma nel carcere Mamertino, dopo essere stato esibito come un trofeo per le vie della città. Una fine che contribuì, soprattutto nell’Ottocento romantico, a farne un simbolo del nazionalismo gallico e un campione della libertà.
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