Con le dovute precauzioni anti covid, i cinema riaprono lo scrigno delle emozioni: perché alcuni film ci emozionano più di altri? Le neuroscienze rispondono.
Nelle zone gialle riaprono finalmente i cinema anche se con ingressi ridotti, distanziamento e mascherine.
Ciak! Il cinema è tornato! I cinefili che non ne possono più di vedere film in streaming possono di nuovo mettersi in fila per andare a vederli in una magica sala buia e senza distrazioni di sorta: nelle zone gialle, finalmente, i cinema - ma anche i musei, i teatri e via dicendo - riaprono la programmazione, naturalmente con le dovute precauzioni anti-covid (ingressi ridotti, distanziamento, mascherine). Tra le pellicole più attese, tutte quelle italiane mai uscite in questi mesi di lockdown, ma anche quelle appena premiate nella Notte degli Oscar. «Per favore guardate il nostro film sullo schermo più grande possibile. Portate quelli che conoscete a vedere tutti i film premiati quest'anno. Tornate al cinema!», ha detto Frances McDormand, l'attrice premiata per la sua interpretazione in Nomadland, grande protagonista della Notte degli Oscar 2021.
LA SCENA VISTA E RIVISTA. Perché andiamo al cinema? Che cosa scatta nel nostro cervello? Perché alcun film ci coinvolgono più di altri? Perché alcune scene ci emozionano anche se le abbiamo viste e riviste? È difficile, infatti, non avere paura ogni volta che guardiamo il bambino sul triciclo nei corridoi dell'Overlook Hotel di Shining o non esultare con Rocky quando alza le braccia al cielo sulla scalinata del Philadelphia Museum.
A domande come queste, una coppia inedita, il neuroscienziato Vittorio Gallese (fece parte del gruppo che individuò i neuroni specchio nel 1992) e il teorico del cinema Michele Guerra, entrambi cinefili nonché ricercatori all'Università degli Studi di Parma, ha dato nuove risposte nel saggio Lo schermo empatico. Cinema e neuroscienze (Raffaello Cortina). Partendo dall'idea che, oltre all'estetica e alla teoria del cinema, anche lo studio del cervello possa spiegare qualcosa della magia della settima arte.
L'ATTIVITÀ DEI NEURONI SPECCHIO. I due ricercatori hanno portato la teoria della "simulazione incarnata" al cinema. Secondo questa tesi, quando guardiamo le azioni altrui, si attivano alcune cellule (neuroni specchio) della nostra corteccia motoria, proprio come se fossimo noi ad agire. Così comprendiamo le emozioni degli altri. E ci immedesimiamo.
Per cominciare, tramite alcuni esperimenti, Gallese e Guerra hanno provato che, anche quando guardiamo il gesto di un attore in un film, vengono stimolate le stesse aree del cervello che si attivano quando siamo noi stessi a svolgere quell'azione, anche se sappiamo benissimo che quella che vediamo al cinema è solo finzione. Ecco perché i film ci coinvolgono: il nostro cervello reagisce come se stesse osservando la realtà.
Basta questo a spiegare la capacità del cinema di trasmettere emozioni? No, c'è molto altro: ci sono precisi movimenti di macchina e scelte di montaggio che attivano maggiormente i neuroni della corteccia motoria. In poche parole, a seconda della tecnica usata dal regista, "entriamo" di più nel film perché empatizziamo meglio con le vicende dei personaggi.
TECNICA DI RIPRESA. «Le neuroscienze si sono avvicinate allo studio delle arti ormai da 20 anni. Prima ci siamo chiesti cosa succede al nostro cervello quando guardiamo un'opera, come ad esempio un "taglio" di Lucio Fontana (risposta: immaginiamo il gesto compiuto dall'artista e questo ci emoziona). Ora noi abbiamo indagato cosa accade se la telecamera viene mossa in modi diversi o se il film viene montato in modo differente», dice Gallese, che continua: «Per scoprirlo, il nostro campione di spettatori guardava alcune scene, realizzate da noi, mentre 128 elettrodi misuravano l'attività dei loro neuroni utilizzando l'elettroencefalografia ad alta densità».
Nei filmati i ricercatori avevano utilizzato quattro diversi tipi dimovimenti di macchina. La stessa scena (un attore davanti a un tavolo che afferrava alcuni oggetti) era stata ripresa: 1) in modo statico con la telecamera fissa; 2) zoomando sull'attore; 3) muovendo a camera sul carrello; 4) utilizzando la steadicam, quel supporto meccanico che permette all'operatore di "indossare" la telecamera muovendosi liberamente.
Risultato? L'uso della steadicam attivava molto di più il meccanismo dei neuroni specchio rispetto al carrello o al movimento della lente con lo zoom. E alla fine dell'esperimento i soggetti interrogati hanno confermato che le scene nelle quali si erano immedesimati di più erano quelle realizzate con la steadicam. «C'è insomma uno stretto parallelismo tra il grado di immedesimazione con la scena e la "risonanza motoria", cioè l'attivitazione del meccanismo dei neuroni specchio.
IL POTERE DELLA STEADICAM. In altre parole, la steadicam attiva di più il cervello motorio perché riproduce il movimento di una persona che si muove verso la scena: è come se noi ci muovessimo in quell'ambiente nella vita reale», spiega Gallese. Sarà per questo che guardando il piano sequenza iniziale di Spectre, lo 007 del 2015, realizzato appunto con la steadicam, ci sentiamo catapultati in mezzo alla folla che festeggia il Giorno dei morti a Città del Messico?
Silvester Stallone in una scena di "Rocky" (John G. Avildsen, 1976). In questo caso, l'operatore indossava la steadicam, un'intelaiatura dotata di un sistema di ammortizzatori che gli permetteva di muoversi intorno all'attore mantenendo la macchina da presa perfettamente stabile.
«Sì. L'uso che il regista Sam Mendes fa della steadicam simula la presenza di un altro corpo in mezzo ai tanti corpi che festeggiano. La cinepresa diventa un "corpo vitale in movimento" e c'è una correlazione tra la "potenza immersiva" della ripresa, il suo riconoscimento da parte dello spettatore e la maggior intensità di attivazione del meccanismo della simulazione», aggiunge. Stesso discorso per altre scene famose girate con questo metodo di ripresa, come quella iconica di "Shining", dove l'operatore che con la steadicam segue il bambino sul triciclo per un lungo corridoio vuoto fa sì che anche noi avvertiamo la presenza invisibile di qualcun altro (un fantasma?) che sta osservando la scena. Trasmettendoci angoscia.
L'USO DELLO ZOOM. Ma non è sempre l'immedesimazione l'effetto più ricercato dai registi. A volte l'impatto che si vuole ottenere è più di tipo "estetico" che emotivo. In questo senso, una delle tecniche di ripresa che più ci "distanzia" dal film, ricordandoci che siamo spettatori di un "quadro", è l'uso dello zoom: l'impatto della simulazione è minore, perché lo zoom è un falso movimento che l'occhio dell'uomo non può fare e dà una forte sensazione di artificialità. Qualche esempio? Alcune scene di Revenant con Leonardo DiCaprio e il classico Barry Lyndon (Kubrick, 1975), che ci dà l'idea di osservare una successione di quadri.
Ma anche il montaggio può trascinarci più o meno "dentro" un film. Perché, per esempio, un classico di Spielberg del 2015 come Il ponte delle spie ci piace? Certo, è una bella storia ed è ben recitato. Tutto qui? «La grandezza di questo film sta nella sua classicità, cioè nel fatto che la narrazione è facilmente comprensibile dallo spettatore perché asseconda i suoi normali processi mentali», dice Guerra. Il testo, cioè, ci pone domande e subito ci dà risposte chiare.
LA MAGIA DEL CINEMA.I film montati in modo classico rispecchiano le nostre attitudini reali: «esattamente come nella vita vogliamo subito risposte, il montaggio classico ce le dà, e noi entriamo in sintonia con il film di Spielberg o con tanti altri film hollywoodiani, diventati per questo blockbuster», conclude il ricercatore. Anche il cosiddetto "montaggi parallelo" funziona benissimo nel coinvolgere lo spettatore (anche se non certo per rilassarlo). Un esempio si trova nel Silenzio degli innocenti (Jonathan Demme, 1991), nella sequenza in cui pensiamo che l'Fbi sia davanti alla casa dell'assassino, mentre ci è arrivata, purtroppo da sola, Jodie Foster. Un inganno che ci spiazza e che proprio per questo motivo alza il livello della tensione.
E allora, i neuroni specchio spiegano tutto? Certamente no. «Si tratta solo di ricordarci che siamo fatti di carne e ossa: viviamo delle esperienze e ci emozioniamo nella vita, ma anche, incredibilmente, in questa scatola buia nella quale siamo seduti con decine e decine di persone. Questo non significa che vogliamo ridurre un film di Bernardo Bertolucci o di Alfred Hitchcock al solo funzionamento dei neuroni specchio, ma che anche le neuroscienze possono dirci qualcosa di più, e di nuovo, sulla magia del cinema», conclude Gallese. Perché la magia delle immagini in movimento è, e sarà, sempre magia. E il cinema la macchina più potente che abbiamo inventato per produrre emozioni.
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